Intervento di Antonio Matasso, segretario regionale della Sicilia, sul sostegno al Terzo polo.

Di tutte le campagne elettorali vissute in ventotto anni di militanza politica, quella presente è stata la peggiore sotto molteplici punti di vista. In primo luogo, per la constatazione di come il populismo sia diventato il nuovo e bislacco senso comune della contesa elettorale: con gradazioni diverse, tutti – da Letta alla Meloni, passando per Salvini – inseguono lo schema grillino del «se ci votate, vi diamo i soldi». Come leggere altrimenti le proposte della dote ai diciottenni o della flat tax, considerata peraltro la loro assoluta vaghezza e, con riferimento alla sola “tassa piatta”, la sua evidente incostituzionalità? Si tratta di meri esempi di politica del “piatto del giorno”, in cui è assente uno straccio di referente sociale.
Secondariamente, il disgusto aumenta per il tasso di ambivalenza e di costante strumentalità dei tre carrozzoni rappresentati dalla destra, dal sedicente centro-sinistra e dai 5 Stelle. La Meloni è così sovranista da pensare di difendere il preteso interesse nazionale avendo come unico alleato conclamato un democratore straniero, vale a dire il filo-putiniano ungherese Orbán: entrambi sono contrari ad un’Europa che finora ci ha solo salvati e persino smaccatamente favoriti, a paragone con altri paesi. Letta, dal canto suo, invoca il pericolo fascista in caso di vittoria dell’estrema destra italiana alle elezioni, ma fino a un minuto prima della crisi di governo offriva la sponda alla Meloni e la considerava un valido interlocutore istituzionale; almeno, finché si trattava di fare muro insieme contro una possibile legge elettorale proporzionale, che Pd e Fratelli d’Italia sono stati concordi nell’affossare. Vi saranno forse alla base due letture diverse di una comune cultura autoritaria, radicata nel disprezzo delle minoranze nonché delle forze politiche medie e piccole, ma in grado di affratellare gli epigoni del catto-comunismo con quelli del fascismo? Non sono abituato a distribuire certezze, ma il dubbio c’è.
Come terzo elemento, scorgo una coazione a ripetere tra gli elettori e i dirigenti autodefiniti di sinistra. Negli anni passati, si manifestava la consolidata abitudine, dalle parti di Botteghe Oscure, di dividere il campo socialista tra socialisti “buoni” e socialisti “cattivi”. Quanti nella famiglia del socialismo italiano rifiutavano di avere una politica propria e si dicevano pronti a sposare acriticamente le politiche e gli interessi del “Bottegone”, erano ovviamente i socialisti “buoni”, chiamati anche con l’appellativo di “unitari” (non nel senso turatiano e matteottiano, ovviamente). Chi sosteneva invece che gli eredi di Turati dovessero dotarsi di una politica propria e che gli interessi di un partito socialista democratico potevano non coincidere necessariamente con quelli del Pci, veniva ascritto tra i socialisti “cattivi”. Una sorte toccata, oltre che allo stesso fondatore, anche al suo allievo Giacomo Matteotti, che prima di essere assassinato dai fascisti, veniva abbondantemente insultato anche dai fautori della cosiddetta sinistra massimalista e comunista: entrambi lo iscrivevano tra i “cattivi” per la sua autonomia di giudizio, ma attaccandosi alla scusa che era figlio di proprietari terrieri, visto che non potevano colpirlo sull’onestà personale o su altro.
Il gioco a distinguere tra socialisti “buoni” e “cattivi” è durato per tanti anni ed ha avuto una certa reviviscenza persino in queste elezioni. Noi socialisti democratici avremmo voluto un programma che si traducesse in una coalizione inclusiva dell’attuale Terzo polo e dello stesso Partito Democratico, pur consapevoli delle ambiguità di quest’ultimo, ma speranzosi che continuasse con l’agenda Draghi e impedisse di nuocere ai settori populisti innervatisi al suo interno. Non avevamo quindi preclusioni preconcette verso il Pd, pur coltivando sempre il legittimo dubbio, proprio perché temevamo e temiamo la ben più pericolosa Meloni. Ancor prima che la pretesa del partito di Letta di tenere insieme due liquidi immiscibili come quello di Calenda e quello di Fratoianni-Bonelli – questi ultimi sempre avversari dell’agenda Draghi – facesse saltare tutto, ci era stato detto chiaramente che alla dirigenza lettiana non interessava alcun rapporto con gruppi socialisti diversi da quello che era stato guidato da Nencini. Il riferimento è a quel piccolo partito che, sia detto senza voler caricare alcuna gravame di colpa sul segretario da poco eletto (di cui presuppongo l’assoluta buona fede), sin dai tempi di Enrico Boselli aveva deciso di abdicare a qualsivoglia politica propria, nonché di sposare a priori quella del Pds-Ds prima e del Pd poi, pur di vedersi assicurato uno strapuntino e qualunque fosse l’orientamento dei padroni del vapore (si veda il voto favorevole al “Jobs Act”). Comprendo, in qualche modo, le difficoltà di tanti compagni che sono lì dentro, onesti e volenterosi, dinanzi a quello che è un elemento costitutivo e fondativo della principale formazione della diaspora socialista.
Tornando però agli illuminati intelletti che contestano il nostro sostegno al Terzo polo, dinanzi al descritto atteggiamento del Partito Democratico e al rifiuto di qualsiasi confronto o rapporto, secondo costoro avremmo dovuto deporre le armi come certi “pacifinti” sostengono che avrebbe dovuto fare l’Ucraina, a seguito dell’invasione russa. E avremmo naturalmente dovuto accettare di sparire e votare in silenzio per il Pd, a cui, secondo costoro, spetta per diritto divino di decidere se i socialisti democratici e riformisti sono degni o meno di entrare in Parlamento. Lo stesso avrebbe dovuto fare anche Renzi, nel momento in cui Letta aveva deliberato la cancellazione di “Italia Viva”. Chi scrive, per inciso, ha presieduto il comitato provinciale messinese per il No al referendum costituzionale del 2016 voluto dal Pd al tempo renziano e non ha condiviso una parte significativa del citato “Jobs Act”, ma mai ha pensato che una sensibilità politica dovesse essere annichilita per debellazione. Evidentemente, certi atteggiamenti illiberali sono sopravvissuti alla caduta del Muro di Berlino, nonostante il nostro rifiuto di ogni pregiudizio e pur non mancando una lunga storia di atteggiamenti poco amichevoli verso la diaspora del Psi e del Psdi: ricordo che ancora nel 2008, il Pd di Veltroni rifiutò l’alleanza con il pur fedele Boselli per prendere con sé Di Pietro, antesignano degli odierni grillini. E, sia detto per inciso, non deponeva bene nemmeno il recente contrasto ai referendum sulla giustizia, particolarmente cari a socialisti e radicali, o i precedenti peana dell’allora dirigenza zingarettiana nei confronti di Giuseppe Conte. Uno zelig ora populista, ora sovranista, ora entrambe le cose, ma sempre intriso di qualunquismo e in sostanza di antisocialismo, il quale è stato fatto passare per il futuro e irrinunciabile leader della sinistra e dei progressisti. Per uno che, insieme a Salvini, ha guidato quello che è finora il governo più a destra della storia del Paese, davvero non c’è male.
Fatte queste premesse, ci si rimprovera che, nel momento in cui il Pd ha ancora una volta dichiarato la nostra inesistenza, ci siamo disposti a contribuire alla creazione di un luogo in cui poter fare politica, che fosse distinto, distante ed alternativo rispetto alla destra. L’aver osato far questo ci sta costando, da parte di molti sostenitori e dirigenti del Partito Democratico, l’accusa di contribuire ad una vittoria della Meloni. Naturalmente, la stessa accusa non vale per la scelta effettuata a monte dal Pd, ovvero quella di creare un campo “stretto” in luogo di quello “largo”. Sempre secondo gli illuminati intelletti di cui sopra, avremmo dovuto stoicamente accettare la nostra stessa “rottamazione” e persino cooperare ad essa. Sarà forse una conseguenza, radicata in molti di loro da decenni, della persuasione di essere i depositari di una verità oggettiva e valida per tutti, invece che gli assertori di un parzialissimo e opinabile punto di vista?
Dunque, eccoci nuovamente iscritti tra i socialisti “cattivi”, proprio come capitato settantacinque anni fa a Saragat, il quale aveva avuto l’ardire di rompere il fronte di una pseudo-sinistra pericolosa ed impresentabile, la quale ci avrebbe portati dritti dritti nella braccia di “Baffone”. Il socialista “buono” e “unitario” era invece quello pronto ad accettare che fosse l’ambasciata sovietica a Roma a dare le direttive e indicare le prospettive. Ancora oggi, l’intellettuale comunista Luciano Canfora parla di “tradimento” di Saragat, invece che di una coraggiosa scelta con cui fu messa in salvo la collocazione dell’Italia tra le democrazie liberali e dimostrato che poteva esistere una sinistra “praticabile”, ossia riformista.
Ma i fatti, per chi ama le liste di proscrizione dei socialisti, si sa, non hanno la testa dura. Quando si obietta che Fratoianni fa parte del contenitore politico europeo creatosi attorno all’ex gruppo comunista a Strasburgo, cioè quella formazione in cui albergano sentimenti euroscettici quando non apertamente antieuropeisti (basti pensare a Mélenchon e al suo sovranismo di pseudo-sinistra), i suddetti soloni controbattono che ciò non è vero. Ma non spiegano perché non è vero. E, naturalmente, si infuriano se si risponde che il gruppo in questione, il più piccolo del Parlamento europeo coi sui 38 deputati, ha sempre votato contro le sanzioni alle dittature russa e cinese. Non sarà un modo di alimentare il sospetto che attorno a quella realtà politica post-comunista girino interessi, magari anche economici, legati a Mosca e Pechino? I due regimi, comunque, ritengono più utile investire in maggior misura sulle destre. Fa sorridere che questa ridotta pattuglia si sia recentemente ribattezzata “Gruppo della Sinistra al Parlamento Europeo”: se la sinistra in Europa veramente si trovasse con solo 38 parlamentari su 705, per di più spesso indistinguibili nelle loro posizioni da quelli della destra sovranista, bisognerebbe concludere che essa sta davvero messa male.
Ovviamente, per le menti superiori del cosiddetto centro-sinistra odierno – per me quello vero resta il centro-sinistra storico, la coalizione tra cattolici e laici di Fanfani, Moro, Nenni, Saragat e La Malfa – noi socialisti “cattivi” non siamo di sinistra. Il presupposto è che essere di sinistra significhi «fare come faceva il Pci» nella Prima Repubblica e come fa il Pd o ogni altro sottoprodotto del “Bottegone” oggi. Se così fosse, noi che ci rifacciamo alla sinistra “altra”, quella di Turati, Matteotti, Saragat e Nenni, dovremmo allora concludere di aver sbagliato tutto. Anche qui, come ovvio, lascio aperta la porta al dubbio.
Alla base di questi atteggiamenti credo vi sia la protervia di pensare di essere i soli ad incarnare le ragioni della sinistra e di ritenersi gli unici in grado di battere la destra. Un po’ come Berlusconi, che si crede l’unto dal Signore per sconfiggere quelli che considera “comunisti” (nella cui definizione, probabilmente, rientrerebbe secondo lui anche il sottoscritto).
Noi socialisti “cattivi” pensiamo che nessuna seria alternativa alla destra possa venire dalle diverse sfumature di populismo del Pd di queste ultime settimane e dei 5 Stelle, così come pensiamo che sia stato Berlusconi ad aprire il vaso di Pandora della demagogia, nella transizione dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica. Piaccia o no alla destra estrema ed al cosiddetto centro-sinistra, stiamo cercando di costruire una nuova opzione, diversa e più seria, attraverso il Terzo polo: non in quanto innamorati di uno dei leader promotori, ma perché si tratta della sola alleanza che ha avuto l’umiltà di proporre un programma basato su un’agenda larga e trasversale quale quella di Mario Draghi.
Qualcuno, sciocco o in malafede, crede pure di poterci accostare agli scapoli in cerca di una fidanzata purchessia. Sono però il Pd e le destre ad aver deciso gli sbarramenti e le varie torsioni maggioritarie delle leggi elettorali degli ultimi anni, costringendo le forze politiche ad aggregarsi. Siamo obbligati dagli altri, dunque, a portare avanti la battaglia per il socialismo democratico e riformista con quelle stesse regole su cui Letta e la Meloni concordano, il solo punto su cui si piacciano tantissimo tra di loro: la priorità di “ammazzare” chi è diverso rispetto ai due emisferi del bipopulismo.
Di certo, il paragone con la storia passata aiuta sempre ad analizzare il presente, ma anche a cogliere gli enormi cambiamenti che ci sono stati. Nessuno di noi pensa che il Pd sia la stessa cosa del Pci dei tempi del Fronte Popolare. Certo, in quel tempo i finanziamenti sovietici all’alleanza guidata da Togliatti venivano erogati in modo che Botteghe Oscure tenesse la mano sul rubinetto delle risorse, cosicché fossero i comunisti a decidere se e come gli altri alleati dovessero esistere. La pretesa di un destino autonomo e libero era intollerabile, il che spiega la campagna di demonizzazione subita da Saragat prima e da Bettino Craxi poi. Risaltano nel tempo presente le differenze enormi, in un’epoca in cui non c’è più la Guerra fredda – anche se adesso assistiamo alla guerra “calda”, quella feroce di Putin – e ci si confronta con una serie di tragedie ma anche di mediocrità, così impressionanti come non si erano mai viste, almeno a memoria mia. Al tempo dei totalitarismi e dello scontro tra blocchi, vi erano in Italia alcune figure tragiche, terribili e qualche volta criminali, ma così mediocri come ora no, a destra tanto quanto nella sedicente sinistra. Letta, Berlusconi, Salvini, Meloni, Conte e le porzioni di popolo disposte a seguirli credo che produrranno più o meno gli stessi danni di altre personalità della storia repubblicana, con la sola differenza di non capire quel che fanno. E non possono esibire nemmeno la scusante delle ideologie, visto che non ne hanno e sono privi di alcuna capacità di seria elaborazione politica.
Davanti alla politica dell’analfabetismo di ritorno e della guerra bipopulista fra bande senza programmi, io scelgo quindi il Terzo polo e continuo a restare tra i socialisti “cattivi”.

ANTONIO MATASSO

Segretario regionale dei Socialdemocratici (SD) della Sicilia

Lascia un commento